L’intervista: Paolo Taviani ricorda Volonté

Dopo aver rincorso Paolo Taviani per un paio di mesi fui sorpreso dalla sua telefonata mentre mi trovavo nel camerino di un grande magazzino. Decidemmo di risentirci nel pomeriggio, non prima di esserci fatti una grossa risata.

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Il ricordo di Paolo Taviani

Io e mio fratello Vittorio stavamo preparando Un uomo da bruciare, un film ispirato alla storia di Salvatore Carnevale, un sindacalista siciliano che fu ucciso dalla mafia.  Cercavamo il protagonista e vedemmo Gian Maria Volonté in teatro che faceva Sacco e Vanzetti. Ci piacque così tanto che decidemmo di fargli un provino. Peccato che non sia stato conservato. Quante cose del lavoro che io e Vittorio abbiamo fatto con attori, anche intere sequenze, sono state buttate via, invece di essere conservate. Non voglio pensarci. Dunque il provino di Gian Maria Volonté è stato uno dei meno riusciti della nostra carriera perché aveva i pregi del teatro che però al cinema diventano difetti, allora più di oggi. Esprimeva sempre troppo, con la voce, con il movimento, noi restammo delusi, ma quando lo rivedemmo in proiezione cambiammo idea, perché ci trovammo di fronte a un volto particolare, che ci colpiva.

Un attore nuovo

Era così nuovo e diverso da tutti quelli che avevamo incontrato che non ce ne fregava più niente se recitava teatralmente oppure no, eravamo commossi, era straordinario e divenne il nostro protagonista. Il problema della sua teatralità si ripropose poi durante la lavorazione del film. Sembrava che invece di camminare sulle zolle della campagna siciliana calpestasse le tavole del palcoscenico e quindi un po’ preoccupati andammo insieme a lui in proiezione e ne parlammo. Ripensandoci capimmo che il personaggio era estroso, vanitoso, coraggioso, perché era un capopopolo, uno che ha un’alta coscienza di se stesso. Salvatore era importante non malgrado i suoi difetti ma grazie ai suoi difetti e uno di questi era quello di dare spettacolo per convincere i suoi compagni di lotta.

Una teatralità cinematografica

Noi ci dicemmo che forse questa teatralità poteva venirci incontro, aiutare, e Gian Maria se ne convinse, però già avvertendo la presenza della macchina da presa e quindi cambiando la sua teatralità in una teatralità cinematografica che è difficile da spiegare ma è appunto un’altra cosa. Lo si vede che fa un personaggio proprio sopra le righe, sapendo rientrare al momento giusto, perché aveva capito cosa fosse il cinema. Una cosa buffa è che alle prime proiezioni disse che non si era mai visto di schiena e aveva capito che si poteva recitare anche con il culo. Dunque facemmo questo film e lui mantenne questa recitazione un po’ esagerata.

Paolo Taviani: «Lo considerammo un tradimento» 

Fu una lavorazione molto contrastata perché c’erano pochi soldi, la lavorazione fu sospesa dopo tre settimane, e poi ripresa a novembre. Nel mentre lui andò a recitare in un altro film senza comunicarcelo, nonostante gli avessimo detto di non farlo: “Stai fermo, che appena abbiamo i soldi si ricomincia”. Addirittura avevamo lasciato delle costruzioni in mezzo alle strade di Sciara, il paese dove si girava. Mentre andavamo in giro a cercare i finanziamenti, scoprimmo che lui era andato a girare A cavallo della tigre di Comencini. Lo considerammo un tradimento e non trovammo i soldi finché Giuliani G. De Negri, che poi diventò il produttore di tutto il nostro cinema, vide il materiale in una proiezione riservata e accettò di coprodurlo.

Paolo Taviani

 

Il carattere distruttivo

All’epoca Gian Maria Volonté era amabile, ma anche capriccioso. Stavamo girando una scena notturna, Salvatore è seduto davanti all’osteria, i compagni stanchi, distrutti dalla fatica del lavoro, stanno tornando. Quando questi arrivano, Gian Maria non pronuncia la sua battuta: “Stop, stop, scusatemi, scusatemi…”. Si ricomincia, arrivano un’altra volta e un’altra volta non dice la battuta: “Non mi riesce…”. Una terza volta e non dice niente. Vittorio, che era il più smilzo di noi, gli saltò addosso e ci fu un principio di colluttazione. Questo per dire del suo carattere distruttivo, non saprei come altro definirlo.

Paolo Taviani: Gian Maria era da amare

Poi però c’è dell’altro e riguarda anche gli altri suoi film. Finale: il funerale. La mafia minacciò: le bandiere rosse a Sciara non sventoleranno mai. Che fare? Il funerale senza bandiere rosse? No. Il direttore della fotografia ebbe un’intuizione: invece che bandiere rosse sventoleremo bandiere azzurre, il film era in bianco e nero e quindi il pubblico le avrebbe interpretate rosse. E così è stato. Quando arrivò il corteo funebre con le bandiere azzurre al vento eravamo tutti commossi, io mi sono voltato e ho visto Gian Maria piangere. Quest’uomo era da amare e noi l’abbiamo amato molto. Me la ricordo con violenza questa commozione sua e nostra, quella mia e di Vittorio  raddoppiò vedendo lui. 

Riguardo al suo essere buono-cattivo, durante una proiezione di Indagine su un cittadino, mi ricordo che gli dicemmo: «È un’interpretazione veramente straordinaria, tu sei un grande attore e ci domandiamo se nel fondo della tua psicologia ci sia della schizofrenia, tu sei un po’ schizofrenico, perché tu sei quel personaggio terribile, perché tu sei anche quello nella vita, gli dicemmo ridendo, e al tempo stesso sei quello di Sacco e Vanzetti, sei l’attore di Porte Aperte, che ha una forza, una carica di umanità enorme, di bontà, ma anche una bontà intelligente». 

[Intervista di Mirko Capozzoli a Paolo Taviani, 4 maggio 2017]

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